Due anni di conflitto hanno ridotto la Striscia di Gaza in un territorio devastato. Le rovine degli edifici distrutti dai bombardamenti israeliani e l’esodo incessante di una popolazione resa apolide hanno trasformato il paesaggio in una distesa desolata, segnata da un profondo senso di annientamento umano e materiale.
Oltre 67mila palestinesi hanno perso la vita — di cui circa un terzo minorenni — mentre milioni di persone risultano ferite o affette da traumi fisici e psicologici non ancora quantificabili. A ciò si aggiunge una percentuale straordinariamente elevata di sfollati interni, stimata intorno al 90% della popolazione complessiva. Queste cifre delineano la portata della catastrofe. Secondo alcune fonti indipendenti, il numero complessivo delle vittime potrebbe essere significativamente superiore, considerando la carestia, il collasso del sistema sanitario e la diffusione incontrollata di malattie.
L’entità della distruzione materiale è altrettanto netta. Le analisi satellitari di UNOSAT (United Nations Satellite Centre, parte dello United Nations Institute for Training and Research, UNITAR) indicano come l’83% delle strutture della Striscia abbia subito danni (moderati o totali), percentuale che in alcune aree arriva a oltre il 90%. Ciò rende Gaza, oggi, un territorio largamente inabitabile che necessiterà di interventi estremamente costosi per ripristinare innanzitutto la sicurezza (si pensi all’opera di bonifica militare che sarà necessario compiere) e poi procedere alla ricostruzione delle infrastrutture e degli edifici.
Il processo promosso dal presidente statunitense Donald Trump, con la mediazione congiunta di Qatar, Egitto e Turchia, rappresenta indubbiamente un segnale di apertura e una possibile occasione di distensione, ma non può essere interpretato come un vero e proprio accordo in grado di garantire una pace duratura nella regione. Il rilascio simultaneo degli ostaggi israeliani detenuti da Hamas dal 7 ottobre 2023 e di alcune migliaia di prigionieri palestinesi, unitamente alla cessazione delle ostilità seguita all’entrata in vigore della tregua, è un fatto positivo, ma non sufficiente a definire il conflitto come superato. Inoltre, sin da subito è apparso chiaro quanto la tregua tra le parti sia fragile e la tensione possa salire rapidamente.
Permangono numerose incertezze riguardo ai punti successivi del piano, che dovranno essere oggetto di negoziazioni complesse tra tutti gli attori coinvolti, inclusi l’Autorità nazionale palestinese (ANP) e Hamas. Il documento elaborato dall’amministrazione Trump lascia volutamente irrisolta una questione fondamentale: chi eserciterà l’autorità coercitiva legittima sul territorio di Gaza nei prossimi mesi e anni. Analogamente, restano indefiniti i meccanismi di equilibrio tra le esigenze di sicurezza israeliana e le aspirazioni palestinesi all’autogoverno, così come le modalità, i tempi e i garanti del processo di disarmo delle milizie di Hamas. Infine, un ulteriore elemento di ambiguità riguarda la transizione politica interna: non è ancora chiaro in quali tempi e attraverso quali procedure avverrà il passaggio da una gestione provvisoria di tipo tecnocratico a una piena e riconosciuta sovranità palestinese, condizione imprescindibile per la stabilità e la legittimità del futuro assetto istituzionale di Gaza.

Fonte: Wikimedia Commons
Il mancato ruolo delle Nazioni unite
La crisi di Gaza, trascendendo i tragici effetti immediati sulla popolazione palestinese e israeliana, si è rivelata un chiaro indicatore delle profonde fragilità del sistema internazionale contemporaneo. Essa ha infatti messo in luce i limiti strutturali delle Nazioni unite, in particolare la loro impossibilità di esercitare un’effettiva capacità di enforcement quando le questioni affrontate coinvolgono gli interessi vitali delle grandi potenze, specialmente quelle che detengono un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza.
Tale disfunzione istituzionale non è nuova: analoghe manifestazioni di paralisi decisionale e di erosione dell’efficacia del diritto internazionale si erano già osservate in occasione dell’intervento in Iraq nel 2003, della crisi libica del 2011 e dell’invasione russa dell’Ucraina nel 2022. Si tratta di precedenti emblematici che confermano come, di fronte al conflitto tra principi giuridici e interessi strategici delle grandi potenze militari, la capacità delle norme internazionali di produrre effetti concreti risulti drasticamente ridotta.
In questo quadro, Gaza rappresenta l’episodio più recente – e uno dei più drammatici – di tale tendenza. L’impatto devastante del conflitto sulla popolazione civile, in particolare sui minori, ha suscitato una crescente attenzione e condanna a livello globale, fino a portare una Commissione d’inchiesta indipendente delle Nazioni unite, nel suo rapporto pubblicato il 16 settembre 2025, a utilizzare esplicitamente il termine ‘genocidio’ per qualificare le violenze subite dal popolo palestinese.

Un Europa troppo ‘timida‘
Parallelamente alla crisi di legittimità e di efficacia che ha investito le Nazioni unite, si è resa altrettanto evidente la crisi politica e strategica dell’Unione europea e, più in generale, del continente europeo nel suo complesso. Bruxelles è apparsa pressoché irrilevante nella fase di negoziazione che ha condotto alla tregua, rivelando la persistente incapacità dell’UE di esprimere una posizione unitaria e coerente in materia di politica estera e di sicurezza comune.
Uno degli effetti più significativi del rapporto del 16 settembre è stato l’aumento della pressione esercitata dall’opinione pubblica interna su diversi governi europei affinché procedessero a riconoscere ufficialmente lo Stato di Palestina. In risposta a tali sollecitazioni, e dando seguito a quanto già a luglio si erano detti pronte a fare, Regno Unito e Francia hanno dunque formalizzato il proprio riconoscimento della statualità palestinese, allineandosi così a Spagna, Irlanda e Slovenia (più Norvegia, quale alleato extra-UE) che avevano già compiuto questo passo nel corso del 2024. Tale iniziativa non è stata peraltro isolata: in quei giorni, segnati dai lavori dell’80a sessione dell’Assemblea generale ONU, sono infatti arrivati i riconoscimenti di Andorra, Australia, Canada, Lussemburgo, Malta, Monaco, Portogallo e San Marino. Privo di effetti immediatamente operativi, questo attivismo diplomatico ha avuto da una parte un rilevantissimo valore simbolico, ma dall’altro ha accentuato la frammentazione del fronte occidentale e, soprattutto, della linea politica europea. Tale divisione è risultata particolarmente evidente nel contrasto tra i Paesi che hanno scelto di sostenere una piena legittimazione internazionale della Palestina e gli Stati — in primis Italia e Germania — che hanno mantenuto una posizione di prudente attesa, rifiutando in questa fase di procedere al riconoscimento formale.
Questa frattura interna contribuisce a consolidare, agli occhi del resto del mondo, l’immagine di un’Unione europea profondamente divisa e incapace di articolare una posizione comune anche di fronte a una crisi di portata eccezionale e geograficamente prossima ai suoi confini. L’Europa continua così a presentarsi come un attore politicamente marginale, pur distinguendosi per la propria rilevante azione umanitaria, che la colloca tra i principali donatori internazionali. L’area MENA è peraltro spazio di naturale proiezione dell’UE, che negli ultimi anni ha promosso iniziative quali l’Agenda per il Mediterraneo (2021), previsto la mobilitazione tramite lo strumento NDICI (Neighbourhood, Development and International Coordination Instrument) di sette miliardi di euro verso Nord Africa e Medio Oriente e reso la regione parte integrante dell’iniziativa di connettività del Global Gateway. Tutto questo non è però sufficiente a colmare un sostanziale deficit di azione politica, senza la quale la credibilità internazionale dell’Unione e la sua capacità di incidere nei processi decisionali globali rischiano di essere ulteriormente compromesse. La timidezza mostrata su quanto accaduto a Gaza ha inoltre acuito il divario diplomatico tra Bruxelles e numerosi Paesi del Sud globale, che sempre più frequentemente accusano l’UE di applicare doppi standard nelle proprie valutazioni e nelle proprie politiche — severa e sanzionatoria nei confronti di alcuni attori, come la Russia, ma sensibilmente più indulgente nei confronti di altri, come Israele.

Appare dunque sempre più urgente, per l’Unione europea, procedere a una ridefinizione organica delle proprie priorità strategiche e a un rafforzamento degli strumenti politico-istituzionali necessari per elaborare e attuare una politica estera realmente credibile ed efficace sul piano internazionale. In questa prospettiva, assume particolare rilievo la decisione adottata nel febbraio 2025 di istituire una nuova Direzione generale dedicata all’area MENA (Medio Oriente, Nord Africa e Golfo).
La nascita di tale struttura, che ha appena reso pubblico il Nuovo Patto per il Mediterraneo, rappresenta un passaggio istituzionale di grande significato. Il documento — concepito come quadro di riferimento per rilanciare la cooperazione politica, economica e di sicurezza con i Paesi della regione — mira a imprimere una svolta nella proiezione esterna dell’Unione, delineando una strategia più coerente, autonoma e fondata su un approccio multilivello alle sfide mediterranee.
Occorre però che i Paesi membri sostengano in modo convinto iniziative come questa, allo scopo di rilanciare l’Europa come attore politico di primo piano e non come semplice attore economico-finanziario o umanitario nella regione.
Nel contesto della crisi di Gaza, appare pertanto essenziale che l’Unione europea sia in grado di esprimere, da subito, una posizione coerente e condivisa, eventualmente attraverso la nomina di un Inviato speciale incaricato di seguire da vicino sia i processi di ricostruzione materiale della Striscia sia i futuri sviluppi politici tra le parti coinvolte. Parallelamente, l’Europa dovrebbe farsi promotrice di iniziative politiche capaci di ricostruire la fiducia tra gli attori locali e internazionali, assumendo un ruolo attivo nella mediazione e nella definizione di prospettive di stabilità sostenibile.
Ciò richiede, in ultima analisi, un rinnovato slancio di volontà politica e una visione strategica improntata alla creatività diplomatica. Un approccio puramente utilitaristico, orientato unicamente a trarre vantaggio economico dal futuro processo di ricostruzione, rischierebbe infatti di compromettere irreversibilmente la credibilità e l’affidabilità dell’Europa agli occhi dei partner regionali e del più ampio mondo arabo, da cui l’Unione non può realisticamente considerarsi disconnessa né politicamente, né economicamente, né tantomeno culturalmente.
Francesco Anghelone